PICCOLE GRANDI TRAGEDIE
Buon compleanno al poeta del disagio giovanile: GUS VAN SANT!
Cantore senza eguali della giovinezza e delle sue ferite, Gus Van Sant ha messo in scena con estrema efficacia il dolore dei momenti di passaggio e, nelle sue migliori opere, ha popolato il suo mondo di ragazzi randagi, spesso border-line, famiglie smarrite e disfunzionali, inconsci malati, società asettiche e putrescenti.
Ha fatto tutto questo alternando opere sperimentali ad altre piuttosto commerciali, lasciando il segno in quattro decenni di cinema.
Per quello che ci riguarda, cari amici dei Mutzhi Mambo, è qui omaggiato perché è riuscito a raccontare in modo apparentemente asettico, con crudezza ma senza mai compiacimento, la violenta deriva morale di un'America allo sbando, senza nemmeno l'ombra di un briciolo di empatia o sentimento.
Meno interessante invece è quando ha cercato di recuperarlo, quel sentimento perduto: la retorica, in questi casi, rischia di affacciarsi dietro l'angolo...
Regista veramente eclettico e capace di cambiare radicalmente stile e registro espressivo nelle diverse fasi della sua carriera (e questo è sicuramente un pregio che lo rende unico, nel bene e nel male), ha firmato autentici capolavori ma anche ciofeche noiosissime e melense.
Infatti, non tutta la sua opera è memorabile ma quando ci azzecca, raramente trova chi gli sta al passo nella sua spietata, minimale ma, nel contempo, poetica visione del destino umano.
Il suo cinema sovente si sviluppa in quel momento di vuoto che precede di pochissimo la tragedia: le ultime ore prima della strage di Columbine, gli ultimi mesi prima della morte di una ragazza malata di cancro, l’ultima passeggiata nel deserto, gli ultimi giorni che precedono il suicidio di una rockstar…
E spesso, il ritratto che ci offre della società, fa veramente ma veramente paura, più di tanti film “horror”!
Gus Green Van Sant Jr. nasce a Louisville il 24 luglio del 1952; figlio di un commesso viaggiatore, a soldi in famiglia stanno bene ma è costretto tutta l'infanzia a cambiare continuamente città e casa.
Scoperta la vocazione per l'arte ed il cinema, inizia a dipingere e a girare cortometraggi e si iscrive a quel covo di debosciati radical della Rhode Island School of Design (che però ha avuto anche il pregio di sfornare altri allievi celebri come David Byrne e Tina Weymouth dei Talking Heads, l'autore dei Griffin, Seth MacFarlane, James Franco..); successivamente si trasferisce a Hollywood, dove collabora ad un paio di film diretti da Ken Shapiro.
Durante il suo soggiorno a Los Angeles bazzica il mondo marginale degli aspiranti divi, spesso tossici e prostituti, e coi suoi cortometraggi in 16 mm, diviene rapidamente un'icona del cinema indipendente.
Debutta alla regia di lungometraggi con “Mala Noche” (1987), racconto di un amore folle tra Walt Curtis e un immigrato messicano.
Continua a mettersi alla prova dietro la macchina da presa con una serie di cortometraggi incentrati sulla rappresentazione della vita di persone borderline: l'esperienza in carcere di un giovane americano in “Ken Death Gets Out of Jail” (1987), l'incontro travolgente tra un ragazzo e un vecchio signore in “My New Friend” (1987), “Five Ways to Kill Yourself” (1987) e il pungente “Thanksgiving Prayer”, malinconica ballata musicale sui miti del sogno americano, realizzata assieme allo scrittore W.S. Burroughs.
“Drugstore Cowboy” (1989) narra le (dis)avventure di un quartetto di giovani junkies rapinatori di farmacie (con un cameo delizioso di William S. Burroughs nella parte di un prete tossico), mentre “Belli e dannati” (orrendo titolo italiano per “My Own Private Idaho"), del 1991, è la storia di due giovani prostituti, interpretati magistralmente da River Phoenix e Keanu Reeves, tossici e balordi, e del loro mondo lurido e allucinato.
La lucidità narrativa che lo ha contraddistinto fino a questo momento, viene meno nel mediocre “Cowgirl - Il nuovo sesso” (1993), tratto dall'omonimo romanzo di Tom Robbins, un viaggio nel mondo della trasgressione: nonostante sia un film cult della controcultura hippy, risulta un po' confuso e mal riuscito, malgrado le eccellenti interpretazioni di Uma Thurman e John Hurt.
Le cose migliorano col cinico, divertentissimo “Da morire” (1995), una commedia nera sulla capacità di plagio del piccolo schermo, con Matt Dillon e una splendida Nicole Kidman nei panni di una sciaquetta ossessionata dal successo, che non esita a fare ammazzare il marito perché percepito come ostacolo alla carriera.
Nello stesso anno collabora con Allen Ginsberg e realizza il cortometraggio “Ballad of the Skeletons”, poi si dedica al progetto di “Will Hunting genio ribelle” (1997). Il film, scritto e interpretato dai giovani interpreti Matt Damon e Ben Affleck, racconta le tribolazioni di un "diverso" alla conquista di un posto nel mondo, tra la passione nascosta per la matematica e l'amore per una ragazza; nulla de che, anzi, diciamo piuttosto retorico…
Seguono due belle ciofeche: l’inutilissimo remake (inquadratura per inquadratura) di “Psycho” (1998), per il quale vince il Razzie Award come peggior regista dell'anno (malgrado la critica ne avesse apprezzato l’autoreferenziale riflessione estetica sulle immagini clonate), e “Scoprendo Forrester” (2000), melensissima rilettura del mito dello scrittore J.D. Salinger, che però risulta quasi una brutta copia del già sdolcinato “Will Hunting”.
Con “Gerry” (2002), Van Sant ci offre il viaggio di due ragazzi (Matt Damon e Casey Affleck) persi nel deserto: malgrado la lentezza e gli interminabili silenzi, sembra una riflessione Zen sul (non)senso della vita ed ha un suo perché.
Con questo film inaugura la sua trilogia dedicata alla giovinezza, vista come momento indissolubilmente legato alla morte.
I due capitoli successivi sono il capolavoro “Elephant” (2003), la nuda, asettica cronaca della strage nel liceo di Columbine, ad opera di due studenti emarginati e armati fino ai denti, avvenuta nel 1999, e “Last Days” (2005), il controverso (e, diciamolo pure, noiosissimo) resoconto degli ultimi giorni prima del suicidio (?) di Kurt Cobain (anche se non viene esplicitato che si tratti proprio del leader dei Nirvana).
Van Sant riprende poi in mano il tema dell'omosessualità taciuta nel cortometraggio che fa parte del collettivo “Paris, je t'aime” (2006), partecipa al mosaico d'autore “A ciascuno il suo cinema” (2007), prima di ritornare al lungometraggio col bellissimo “Paranoid Park” (2007), il minimale ma lucidissimo resoconto sull'alienazione di un giovane skater allo sbando, colpevole di un omicidio involontario.
Ancora una volta la giovinezza va a pari passo con la morte, così come nel successivo contributo “Mansion of the Hill”, cortometraggio dell'opera “8” (2008), in cui parla di mortalità infantile contrapponendola alle immagini spensierate di un gruppo di skaters.
Già amico di Sean Penn da molti anni, lo chiama per interpretare Harvey Milk nel film “Milk” (2008), interessante biopic su uno dei militanti più importanti d'America, sostenitore negli anni ‘70 dei diritti civili degli omosessuali.
Nel 2009 Van Sant volge lo sguardo al passato hippy degli USA e, sulla base di un romanzo di Tom Wolfe, dirige “The Electric Kool-aid Acid Test”, viaggio documentario coast to coast da Los Angeles a New York a bordo di un pulmino colorato.
Nel 2011 gira il commovente “L'amore che resta”, con le giovani star Henry Hopper e Mia Wasikowska: in mano ad un altro regista, questa storia dell’amore di un ragazzo orfano con una malata terminale di cancro, ne uscirebbe come un agghiacciante “lacrima-movie”, ma Van Sant riesce a renderla una ennesima, interessante riflessione sul rapporto adolescenza/morte.
Da vedere quando non ci sono giramenti di coglioni in vista, però!
Nel 2013 esce “Promised Land”, con l'amico Matt Damon come protagonista, drammone ecologista a cui manca la “zampata” d’autore a cui Van Sant ci ha abituato e tutto finisce con il perdersi nel filone del cinema americano politically correct, ricco di buoni sentimenti ma privo di incisività.
Due anni dopo presenta a Cannes “La foresta dei sogni”, interpretato da Matthew McConaughey e Naomi Watts, altro film del genere melenso/ciofeca con pretese autoriali.
Nel 2017 produce e gira i primi due episodi della miniserie "When We Rise", un docu-drama ideato e scritto da Dustin Lance Black che racconta la nascita, l'ascesa e le battaglie del movimento per i diritti gay, attraverso le storie di uomini e donne che negli anni hanno lottato per il movimento LGBT.
L'anno successivo è la volta del toccante "Don't Worry", basato sulla biografia dello spietato vignettista satirico John Callahan, che dopo una giovinezza dedita ad alcol e droghe, dopo un incidente si ritrova in carrozzina, scoprendo nel disegno l'unico scopo nella vita
Interpretato da un sempre piu bravo Joaquin Phoenix, il film riesce a non cadere nel facile pietismo, anche sa volte risulta un po' discalico.
Chiaramente, anni luce meglio di roba tipo "Quasi amici" e compagnia bella..
Nella sua carriera, Van Sant ha anche diretto vari clip musicali e, nel 1997, ha scritto il suo unico libro, “Pink”; negli anni '80, ha inciso due album: “Gus Van Sant” e “18 Songs About Golf”, roba piuttosto lo-fi pallosetta; inoltre ha pubblicato una gran raccolta dei suoi servizi fotografici.
Speriamo solo che il buon Gus in futuro sappia ancora inquietarci con dei film all'altezza dei suoi (numerosi) capolavori.
Certo, la media dei suoi film migliori è talmente alta che non ne siamo troppo convinti…
Tanti auguri, Gus!
"La maggior parte della gente non ha idea della sensazione che proverà fra cinque minuti, per un tossicomane invece è diverso: lui lo sa. Gli basta leggere un'etichetta."
Bob Hughes/Matt Damon - Drugstore Cowboy