Senza il leggendario SAM PECKINPAH il Pulp, almeno come lo intendiamo oggi, non esisterebbe.
E sicuramente, per quello che ci riguarda, non esiste migliore presentaziome possibile!
Il cantore del nichilismo, il massimo esteta della violenza filmata, ha regalato al mondo delle pellicole tutti i temi cari alla cultura "sangue & merda": è stato lui a metterli sul piatto d'argento, in bella mostra, ben prima dei vari Tarantino, Rodriguez e compagnia bella....
Chiaramente, cari amici dei Mutzhi Mambo, il Pulp è un fenomeno talmente composito che non ci sognamo neppure di affibbiarne a chicchessia la paternità.
Nel Pulp, lo dice il nome stesso, c'è dentro di tutto: dall'horror-trash al porno, dalla junkie culture alla fantascenza, dalle crime novels ai comics underground, dal rock'n'roll ai film di kung fu, dallo spaghetti-western alle pin-up, dallo splatter al blues, e chi più ne ha più ne metta; ma se vi capita di vedere "Getaway" o "Voglio la Testa di Garcia", e di approfondire la biografia del regista californiano, probabilmente capirete cosa intendiamo quando affermiamo che l'apporto di Sam Peckinpah è stato assolutamente indispensabile a questo universo parallelo che tanto amiamo!
Oltretutto, Peckinpah era pure Pulp "dentro", proprio la sua vita era Pulp, come uno dei suoi dolenti personaggi; un artista estremo, eccessivo, nemico degli Studios e impossibile da trattare.
Scontroso, dispotico, visionario, controverso, alcolizzato, amante dei valori virili più reazionari ma nel contempo assolutamente anticonformista.
Vero genio del cinema, capace dei più grandii virtuosismi con la macchina da presa, delle più innovative trovate di sceneggiatura, fotografia e montaggio ma anche di buttarsi via, di sprecare il suo enorme talento con nonchalance, in produzioni assolutamente non all'altezza del suo spessore artistico.
Peckinpah era incredibile: riusciva a vedere il lato romantico e spettacolare anche nei fatti più truci e a trovare il lato truce nei i fatti più romantici e spettacoli.
Era truce, insomma, ma di una classe eccezionale!
David Samuel Peckinpah nasce a Fresno, in California, il 21 febbraio del 1925.
La sua famiglia è costituita da uomini di legge (il padre e il fratello sono giudici) e da allevatori (il nonno possiede un immenso ranch).
Il giovane cresce in mezzo alla natura, in seno ad una famiglia autoritaria, di religione protestante.
L’etica e il senso dell’eroismo, tanto quanto il cinismo ed un certo machismo che caratterizzeranno i suoi film, sono il frutto sia delle prime esperienze personali avute col padre e col nonno, sia dell'educazione imposta dalla religiosissima madre.
Durante il college i risultati scolastici sono mediocri e l'unico suo o interesse è giocare nella squadra di football.
Ai discorsi di diritto del padre e del nonno preferisce le letture dei romanzi di Edgar Rice Burroughs, Charles Dickens e del "Moby Dick" di Herman Melville, ma soprattutto preferisce godersi il mondo libero del West, con le storie di cowboy e indiani, tanto da mettere in giro la voce di avere lui stesso sangue pellerossa, grazie alle sue due zie di una tribù della Sierra Mono: in realtà le “zie” native sono acquisite, erano state adottate dal nonno paterno!
A causa della sua indisciplina e degli scarsi risultati scolastici, il padre lo iscrive all'accademia militare di San Francisco e, nel 1943, si arruola nei Marines: negli anni seguenti passa dagli studi di ingegneria militare (senza diplomarsi) a Lafayette, alla scuola ufficiali di Camp Lejeune nella Carolina del Nord.
Nel 1945 lo spediscono in Cina con la sua unità, dopo che si è fatto notare più per l'indisciplina e le ubriacature.
Ormai, a guerra finita, passa gran parte dei suoi diciotto mesi di missione in servizio a Pechino.
Congedato, nel 1947 riprende gli studi all'università di Fresno e conosce e sposa nello stesso anno la sua prima moglie, una giovane attrice.
Sam studia teatro e s'immerge nella lettura di autori come Joseph Conrad, Ernest Hemingway e William Faulkner e nella visione dei film di John Ford, Howard Hawks e John Huston.
La nascita della sua prima figlia, nel '49, lo costringe ad abbandonare gli studi e accettare la direzione dell'Huntington Park Civic Theather di Los Angeles, dove per due stagioni mette in scena opere di William Saroyan e soprattutto di Tennessee Williams che avrà una grande influenza sulla sua formazione culturale.
Ma il denaro non basta mai per mantenere la famiglia in modo dignitoso e quindi, dopo un primo fallimentare tentativo a entrare alla Paramount, nel 1952 viene assunto da una televisione locale di Los Angeles, dove inizia la sua gavetta, partendo da macchinista e assistente di scena.
Il nuovo lavoro gli permette di riprendere gli studi e di diplomarsi in Arte Drammatica all'University of South California.
E' in questo periodo che Peckinpah inizia a sperimentare la regia televisiva e, per la tesi di laurea, metterà in scena "Portrait of a Madonna" (1952) tratto da una dramma di Tennessee Williams.
ll giovane irrequieto abbandona però la televisione locale dopo una serie di litigi e approda alla Cbs News come assistente sceneggiatore.
E' in questi anni che inizia a supervisionare i dialoghi delle sceneggiature di numerosi lungometraggi, tra cui alcuni di Don Siegel come il mitico "L'invasione degli ultracorpi", dove fa anche una breve apparizione.
I rapporti tra i due non sono però eccelsi e anzi Siegel non riesce proprio ad apprezzare fino in fondo il lavoro del suo giovane assistente.
Gli anni ‘50 sono molto fruttuosi per il western, un genere che ha un grande fascino e alta presa sul pubblico, in particolare per le serie "adulte".
Il futuro regista trascorrerà questi anni scrivendo sceneggiature per le principali serie televisive della CBS.
Tra tutte, citiamo gli undici episodi tra il '55 e il '58 della serie "Gunsmoke" sulle avventure dello sceriffo di Dodge City, Matt Dillon, interpretato da James Arness.
Già in questi lavori si avverte la volontà di rendere il più realistico possibile il mondo della frontiera con l'inserimento di una visione violenta che viene però smussata dalla produzione nella messa in scena della serie stessa.
Il grande successo di pubblico rende Peckinpah uno sceneggiatore ricercato dai produttori televisivi delle serie western e viene ingaggiato per scrivere la prima stagione della serie "The Rifleman" (1958-1959) a cui partecipa attivamente anche come regista di quattro episodi.
Il suo debutto ufficiale come regista avviene con la regia di un episodio, passata inosservata, della serie "Broken Arrow".
Ma è con "The Westerner" (1960) in cui la poetica di Peckinpah di questa fase si esprime nella piena maturità; essendo il creatore, produttore, sceneggiatore dell'intera serie, nonché regista di 5 dei 13 episodi, avrà una maggiore libertà d'azione.
Nel 1961 debutta al cinema con il modesto "La morte cavalca a Rio Bravo" ma il primo film importante giunge l’anno successivo con "Sfida nell’alta Sierra", un western, caratterizzato da un’inedita violenza realistica, che approfondisce, alla maniera di Peckinpah, un topos classico del western: l’amicizia virile.
Non avrà successo, anche per colpa dei pesanti interventi della produzione, ma tuttora è considerato uno dei film di svolta nella cinematografia western.
Finalmente torna a dirigere e sforna un capolavoro "maledetto" come "Sierra Charriba" (1965), storia di loosers che dercano il riscatto con l'ultima missione.
L'occasione di girare un film con Charlton Heston gli dà la possibilità di confrontarsi con una Major hollywoodiana, ma è anche l'esempio del più grande scontro (non l'unico né l’ultimo però!) che il nostro avrà con gli odiati studios che arriveranno a massacrare il film durante il montaggio definitivo.
E' ormai celebre il continuo battibecco con il produttore e la troupe: Bresler comunica a Peckinpah che il film si deve girare in soli sessanta giorni tagliando quindici giorni di riprese.
Tra varie minacce di abbandono di massa del set e di licenziamenti in tronco, il provvidenziale gesto di Heston (protagonista del film, nella parte del Maggiore Dundee), che rinuncia al suo cachet, permette di continuare tra mille difficoltà le riprese.
Dopo questo film Sam Peckinpah entra nella lista nera degli Studios, non per motivi politici ma proprio per la sua ingestibilità come regista agli ordini della produzione.
Si apre un periodo oscuro e difficile per Peckinpah: per lasciarsi dietro le spalle il western accetta l'offerta del produttore Martin Ransohoff di dirigere "Cincinnati Kid" una storia di giocatori di poker durante la Grande Depressione interpretato da Steve McQueen e Spencer Tracy.
Dopo però otto giorni di scontri durissimi sul set con la produzione, Peckinpah viene licenziato in tronco e sostituito da Norman Jewison (nel frattempo anche Tracy ha abbandonato ed è stato rimpiazzato da Edward G. Robinson).
La carriera cinematografica del talentuoso regista sembra terminata ancor prima di essere iniziata…
Deve mantenere due mogli e quattro figli e per tirare avanti ritorna a dirigere film per la televisione e scrivere sceneggiature come "Doringo" di Arnold Laven.
E' il successo di "Noon Wine" (1966), western per la TV interpretato da Jason Robards e Olivia de Havilland, che riporta in auge il suo nome e gli permette di ritornare dietro la macchina da presa per dirigere un lungometraggio cinematografico.
Dei reietti sono anche i quattro protagonisti del successivo film di Peckinpah, "Il Mucchio Selvaggio", che rimane il suo capolavoro assoluto e uno dei punti più alti raggiunti dal genere western.
È il film che rappresenta la”summa” della poetica del regista californiano: la storia della banda di Pike Bishop (interpretato da uno strepitoso William Holden), liberamente ispirata alle gesta di Butch Cassidy, diventa la concentrazione dei temi cari al Nostro e allo stesso tempo l'esempio più completo del nuovo cinema americano.
Tra azione e riflessione, la messa in scena di è una sintesi estrema dello scontro tra modernità e passato, tra l'epica Storia della Frontiera e della Rivoluzione Messicana e la storia minimale di un gruppo di uomini selvaggi la cui unica molla è la violenza, perché con essa (con)vivono e in essa si realizzano.
Ma la rappresentazione della violenza non è fine a se stessa (anche se il film verrà accusato proprio di eccesso di morbosità e spettacolarizzazione nel rappresentarla) e la sua estetica si basa su una raffigurazione realistica come mai prima di allora è stata portata sullo schermo (a parte il nostro Sergio Leone...).
Dopo l’epico bagno di sangue che chiude quest’ultima opera (e che alimenterà diverse polemiche), il nostro Sam sorprende pubblico e critica con un piccolo gioiello come "La ballata di Cable Hogue" (1970), interpretato da un grande Jason Robards.
Un western visionario dai toni quasi comici in cui quasi non scorre una goccia di sangue; un bellissimo film, metafora dell’irrimediabile fine di un’epoca, che all'uscita frastorna i critici e non avrà il dovuto successo.
Disgustato dall'ennesimo boicottaggio, Peckinpah decide che è venuto il momento di cambiare aria.
Nasce così il suo primo film non di genere western: "Cane di Paglia" (1971).
Forse il suo film più disturbante, interpretato da Dustin Hoffman nella sua prova migliore, che si pone due scottanti questioni, fondamentali per il regista, ma destinate a rimanere senza soluzione: Peckinpah si chiede, tramite questa torbida storia di ordinaria follia e vendetta, se ogni rapporto tra uomo e uomo non si risolva in un rapporto di sopraffazione, in cui vanno distinti un dominante e un dominato, e se ogni rapporto tra uomo e donna non adombri la violenza sessuale.
Il quesito insomma è se la società contemporanea non risponda ancora, nel profondo, a dinamiche di tipo tribale.
Nel 1972 sarà la volta di ben due film: "L’ultimo buscadero" e "Getaway!".
Il primo, un western moderno e malinconico, ambientato nel mondo del rodeo, letto come l’ultimo baluardo delle utopie di frontiera, si avvale della performance di un ottimo Steve McQueen.
Il secondo film, ancora con McQueen, è la quintessenza dell' “action movie” secco e veloce.
Tratto da un racconto di Jim Thompson e sceneggiato da Walter Hill, è uno dei migliori crime di sempre, cinico, violentissimo, spietato, ricco di scene memorabili.
Il 1973 è l’anno di un altro capolavoro: "Pat Garrett e Billy the Kid", con James Coburn e il cantante country Kris Kristofferson.
E’ di certo l’opera più nostalgica del regista, nella quale la fine dell’epopea western è narrata attraverso la storia di un’amicizia virile che si spezza a causa delle necessità dettate dalle nuove dinamiche sociali, una storia di uomini che uccidono senza odio e senza convinzioni.
Anche questa pellicola verrà massacrata dai produttori (per vederla in versione “director's cut” si dovrà aspettare il 1988!) che ne taglieranno più di 20 minuti, stravolgendo la narrazione originale.
Il nostro Sam, sempre piu alcolizzato e strafatto, rimane talmente deluso che se ne va dagli Stati Uniti per riparare in Messico.
Nasce in questa atmosfera pessimista "Voglio la testa di Garcia" (1974), con uno straordinario Warren Oates, nella parte della vita.
Alla sua uscita e per molto tempo il film viene accusato di essere misogino, violento, sadico, considerato uno dei meno riusciti del regista.
Nella realtà, a distanza di anni, può essere rivalutato come uno delle sue opere più importanti.
Un film sulla morte, la vendetta, il senso etico di giustizia, profondamente personale e in parte autobiografico, con Warren Oates che diventa l'alter ego di Peckinpah all'interno della realtà filmica, imitandolo non solo fisicamente (nei gesti, nei movimenti del corpo, nella pettinatura, nel modo di vestire) ma anche psicologicamente, nei comportamenti, nel tono della voce, nelle espressioni verbali, nel modo di parlare.
Si viene a creare un cortocircuito tra realtà e finzione, trasformando "Voglio la testa di Garcia" in un riuscito, quanto casuale, esempio di metacinema.
Il regista, in stato di delirio, gira in uno scenario mai visto sugli schermi prima di allora, gli squallidi dintorni della provincia di Città del Messico, e crea un'opera anticipatrice di tanto cinema dei decenni successivi, il film Pulp definitivo prima di Quentin Tarantino, violento e pieno di commistioni, nichilista e anarchico, disturbante e poetico, insomma un capolavoro!
Come uno dei personaggi dei suoi film, dopo l'ennesimo periodo messicano di continuo vagabondaggio, il nostro Sam torna a Los Angeles.
La salute minata dagli abusi non fa che peggiorare e i medici gli ordinano di smettere di bere.
Il regista per controbilanciare aumenta le dosi di cocaina che aveva iniziato ad assumere durante le riprese di "Garcia" su suggerimento di Warren Oates.
Peckinpah si sente perduto al di fuori del set, con la sua vita privata disordinata ed eccessiva (vive in una roulotte a Malibu con alle spalle un numero considerevole di matrimoni, divorzi e figli, con i quali, praticamente, non ha rapporti) e il totale insuccesso commerciale dei suoi ultimi film.
Cerca a qualsiasi costo un altro progetto da realizzare.
L'occasione arriva con una proposta da parte di Martin Baum, uno dei pochi produttori con cui Peckinpah s'intende, che gli offre la direzione di "Killer Elite" (1975), una spy story con James Caan e Robert Duvall.
Il film, pieno di strampalati combattimenti di arti marziali, risulta confuso ma ha il suo fascino, soprattutto per l'inserimento del doppiogiochismo dei superiori che per denaro sono disposti a cambiare bandiera velocemente, in una destrutturazione del cinema d'azione basata tutta sull'utilitarismo e senza nessuna raffigurazione psicologica dei personaggio, dove il potere è sempre violento e pronto a tradire.
Il 1977 è l’anno di "La croce di ferro" ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, con James Coburn.
Unico film americano che si pone nell'ottica dell'esercito tedesco, non è certo un film pacifista, anzi una certa fascinazione per la guerra attraversa tutta l’opera.
Ciò costa a Peckinpah nuove accuse di fascismo (dopo quelle per "Cane di Paglia").
Ma se si cerca di guardare il film senza preconcetti né filtri da “politically correct” ci si trova dinanzi ad un’opera notevole.
I personaggi, né buoni né cattivi, sono uniti dalla stessa disillusione e, più che vincere, desiderano solo che la guerra finisca.
Non c’è spazio per i sogni dei protagonisti, ma ce n’è abbastanza da permettere a Peckinpah di affrontare temi inediti per il genere bellico (gli shock da conflitto, l’omosessualità, la denuncia nei confronti di un regime dittatoriale) e di ribadire i concetti a lui più cari (l’eroismo dei perdenti, la fedeltà, l’onore, l’amicizia, l'assurdità e il fatalismo che muovono i destini).
Addirittura, per questo film, Peckinpah riceve il sostegno da parte di Orson Welles che gli scrive una lettera dove si complimenta con il collega per aver girato il miglior film contro la guerra mai realizzato.
Alla faccia del guerrafondaio!
Il regista californiano, sempre più sprofondato nell'abisso dell'alcol e della droga, riesce a portare a termine un'opera potente, ribelle e anticonformista pur con i pochi mezzi messi a disposizione da parte di una produzione improvvisata e dilettantesca.
Ormai però l'equilibrio di Sam è completamente andato: tra la fine degli anni '70 e l’inizio degli anni '80, firma le sue due ultime opere. "Convoy-Trincea d’asfalto" (1978), un prodotto minore, in cui il regista innesta sul road movie e sull’azione i moduli del western, dando vita ad un film dai toni quasi scanzonati.
Nel maggio del 1979, Sam viene colpito da un infarto che lo costringe all'impianto di un pacemaker e un lungo e difficile periodo di disintossicazione in ospedale.
L’ultima prova è "Osterman Weekend" (1983), film pesantemente tagliato e rimaneggiato dalla produzione, che costituisce un unicum nella carriera del regista.
Esso anticipa le torbide atmosfere di "Videodrome" di David Cronenberg, affrontando il tema della pervasività del mezzo televisivo, letto come uno strumento del potere.
In questa spy story dalle tinte thriller non risulta mai chiaro chi viene controllato e chi esercita il controllo, chi è sotto ricatto e chi no, chi è la preda e chi è il predatore.
Le amicizie virili sono distrutte e ogni valore viene fagocitato dall’occhio meccanico che tutto vede...
Girovago, vagabondo, ridotto ad uno straccio, Peckinpah affronta la fine dell'ennesimo breve matrimonio e dopo l'ultimo litigio con la moglie, il 27 dicembre 1984 si rifugia in Messico.
Ma ormai la sua salute è perduta e i continui abusi ed eccessi ne hanno completamente debilitato il fisico.
Nella notte è vittima di un'embolia polmonare e in tutta fretta lo riportano a Los Angeles.
Sam Peckinpah si spegne il giorno dopo: non ha ancora compiuto sessanta anni.
Speriamo che, almeno lassù (o laggiù) dove è andato a finire, il nostro Peckinpah non si trovi ancora fra i piedi dei produttori a rompergli le palle.
Almeno questo, se c'è un Dio, glielo deve…
Onore a Sam Peckinpah!
"Che cosa c'è di sacro in una fossa nella terra? O nel morto che c'è dentro? O in me? O in te?"
Bennie/Warren Oates - Voglio la Testa di Garcia